Come sono arrivata fin qui?
Come sono arrivata a diventare freelance, visto che parlare di soldi, tasse, scadenze, mi ha sempre fatto sentire il petto soccombere sotto un peso enorme, e formicolare le braccia? Ho deciso di parlarne per benino, anche perché si inaugura una nuova rubrica, che tenevo chiusa in un cassetto da troppo tempo.
Ma iniziamo per gradi.      

Prima di essere quello che sono oggi, un’impresa (l’ho scritto davvero? Pare di si), ho lavorato in una piccolissima agenzia di comunicazione per cinque anni, tre di questi con un contratto a tempo indeterminato: il mio primo vero contratto (e forse pure l’ultimo) venuto fuori casualmente, e dopo anni di lavoro in nero e sottopagato. 
È successo tutto per caso: un grosso cliente ha chiuso un accordo con l’agenzia permettendo un’entrata considerevole e continua, a cui si è aggiunta, per chi assumeva, l’agevolazione fiscale di non pagare le tasse per ben tre anni. Un’allineamento astrale, una semplice casualità, una botta di culo, chiamatela come volete. Ecco, è successo che all’improvviso ho avuto un contratto (che non ho mai visto né firmato) e una busta paga che non ho mai saputo leggere. La cifra mensile era ridicola, e se non ci fossero stati altri lavori pagati “cash” e il lavoro da tata, sarei stata costretta a chiedere di nuovo i soldi ai miei, come ai tempi della triennale. Però ho continuato a lavorare, nonostante tutto: senza orari, con pause pranzo che di pause non avevano nulla, con una finta libertà di gestione del tempo che veniva perennemente sottolineata e fatta pesare, e soprattutto svalutando le mie ore lavorative. Ogni giorno ho creduto in un qualcosa perché mi veniva chiesto di farlo e perché mi veniva presentato come un progetto che era di tuttз, non solo di chi prendeva le decisioni. E invece quel progetto lì non era mio, non lo era mai stato. Me ne sono accorta quando sono rimasta incinta. La notizia della mia gravidanza è stata accolta in maniera positiva da titolare e colleghe ma dopo qualche mese le cose sono cambiate: il grosso cliente ci ha dato il benservito e le agevolazioni fiscali sui contratti avevano i mesi contati. Mesi di riunioni pesantissime, con gli ormoni che scombussolavano maggiormente la mia emotività, scambi di mail roventi, frasi da segnare come promemoria di quanto l’umanità a volte sia disumana. Nonostante il contratto a tempo indeterminato l’agenzia non aveva fisicamente i soldi per pagarmi la maternità: tre mesi dopo la gravidanza mi sono licenziata per giusta causa. Era l’unica cosa che potevo fare. 

Foto di Jordan Whitfield su Unsplash

Da quel giorno ormai sono passati più di 4 anni e ancora fa male, lo ammetto. Ma è anche vero che se non fosse andata così, non sarei qui adesso. Quelle sono le ceneri da cui sono rinata. Mi ci è voluto del tempo per arrivare dove sono adesso: essere madre mi ha risucchiata più di quanto potessi immaginare e nonostante abbia provato a portare avanti il mio lavoro da digital strategist e social media manager mi sembrava di essere tornata indietro, ai tempi della gavetta. Quando sono riuscita a riprendermi per mano, e trascinarmi fuori da quella bolla che è la maternità, è arrivato il 2020 e come tuttз ho subito un’altra battuta d’arresto. A ottobre 2021 ero finalmente pronta e ho aperto la partita iva. Potrei dire che è stata quasi una scelta naturale, ma la verità è che, prima di arrivarci, di avere il coraggio di parlare con un commercialista e fare questo passo in una vita ancora più adulta, mi sono interrogata sul da farsi, arrovellandomi di domande e dubbi, e facendomi divorare dal terrore puro di non farcela. È stata quindi una scelta naturale perché era l’unica che avevo davanti: l’esperienza di lavoro dipendente che avevo vissuto era stata così terribile che non avevo alcun interesse a riprovarci. 

Dopo essere stata intervistata da Chiara Nardinocchi e Flavia Cappadocia su lavoro e materni, molte persone mi hanno scritto per raccontarmi la loro esperienza. Leggerle, sentirle, mi lasciava un senso di meraviglia ma poi a pensarci bene io di storie come quelle ne avevo sentito a bizzeffe. E allora perché pensiamo siano eventi rari, sfighe, momenti passeggeri? Storie come queste non sono più solo personali iniziano a diventare universali: si continua a lavorare con orari impossibili, senza pause, senza diritti, con una paga che in alcuni casi è diventata irrisoria, in altri è giusta, in quel senso che si intende quando ti provi delle scarpe e l’alluce tocca appena la punta della scarpa. Basta che faccia caldo e ti si gonfino i piedi che le scarpe ti stanno strette. Ma almeno lavori, ti senti dire. E invece no, se le scarpe sono strette non vanno bene.

Io so, anche se con difficoltà, perché ho voluto raccontare la mia storia. L’ho fatto perché me lo dovevo, perché raccontandola vedo tutto il percorso che ho fatto per arrivare alla consapevolezza che ho di me oggi, come donna e come lavoratrice. E allo stesso tempo l’ho fatto perché so che di storie come la mia, meglio o peggio, ce ne sono tante e vanno raccontate, e soprattutto ascoltate. Diciamolo a tuttз che questo modo di concepire il lavoro non va più bene, non combacia più con la vita che desideriamo. Non vogliamo più vivere per lavorare.

Questa è la mia storia ed è anche la storia numero uno di Lanciala, una rubrica liberatoria.

una molotov fucsia piena di glitter colorati - disegno di Alice Fadda

Lanciala è come quel sassolino che hai nella scarpa, quella cosa che ti sei tenuta dentro per troppo tempo, quel pensiero fisso che non ti fa dormire la notte. L’unico modo per stare bene è liberarsene. 

L’ho immaginata come una rubrica multidisciplinare, perché di sassolini, cose e pensieri ne abbiamo tanti e li abbiamo tuttз. Raccoglierà le storie di chi non ci sta più, di chi ha deciso di alzare la testa per non farsi schiacciare, di chi è scappatǝ perché non poteva fare altrimenti, di chi si è liberatǝ. Uno spazio dove poter dire la propria senza paura di ricevere una lettera di richiamo, dove poter alzare la voce senza averne vergogna, perché nessunǝ verrà a chiederci di abbassarla.

Come avrete capito ho deciso di partire dal lavoro, perché per me è stato il clic che ha fatto scattare la luce, è stata la miccia incendiaria. Anche per questo ho scelto di disegnare una molotov: spesso questo storie ci esplodono dentro, in un mix di dolore e rabbia, e invece è il momento che esplodano davanti alle faccia di tuttз. Tanto, come avrete visto, sono molotov ripiene stracolme di brillantini. Mi piacerebbe in futuro parlare anche di maternità e di genitorialità: essendo questo uno spazio libero si parlerà di quello che verrà fuori. 

Lanciala ha vissuto nella mia testa a lungo ora è pronta anche per voi. Se anche tu vuoi partecipare a questa esplosione puoi scrivermi la tua storia alla mail: dimmitutto@alicefadda.com